La Pietra Ollare

 Tra le antiche attività tradizionali della bassa Bregaglia, un posto di rilievo è occupato dalla lavorazione della pietra ollare.

Si producevano soprattutto laveggi. “Alcuni ritengono che questi laveggi hanno la proprietà di non tollerare veleno di sorta nella vivanda che dentro vi si cuoce, perchè ogni veleno eventualmente propinatovi verrebbe neutralizzato durante la bollitura”. Lo Scheuchzer scrive nel 1746, “… in queste pentole di pietra i cibi cuociono piu in fretta e meglio che in altre fatte in ottone, rame o altro metallo; inoltre i cibi mantengono la loro naturale fragranza e non vengono inquinati da sapori estranei”.

 

Verso la fine del Settecento I’attività legata alla pietra ollare andava man mano diminuendo, ma ancora nel 1805 un Giacomo De Pedrini di Piuro aveva mandato un paio di laveggi a una esposizione milanese. Una ditta De Pedrini figura nei registri della camera di commercio del 1866.

II laboratorio era a Prosto, dove pochi anni fa Roberto Lucchinetti ha ripreso la tradizione dei piuraschi di cavare e lavorare la pietra ollare. Realizza, oltre ai classici laveggi, calici che riproducono la forma di uno antico trovato nella rovina di Piuro, “Furagn” che sono recipienti muniti di coperchio usati per conservare burro, grasso animale, carni e formaggio.

All’inventiva di questo artigiano sono dovuti servizi per caffè, recipienti per conservare la fragranza del caffez macinato e “pigne” (stufe in pietra) dalle linee eleganti.

Si possono ammirare questi oggetti e altri nel suo “Atelier-museo”, vicino alla chiesa parrocchiale di Prosto. Negli stessi locali ora Roberto Lucchinetti ha inaugurato un laboratorio di tessitura dove si producono tappeti e tessuti di pregevole fattura. I due laboratori artigianali, unici nell’intera regione, per il restauro conservativo eseguito e per gli oggetti che si possono ammirare, meritano senz’altro una visita.

Lavorazione

I laveggi di pietra ollare non sono molto pesanti, avendo uno spessore di pochi millimetri: 7-8 nella parte verticale e circa 12 nel fondo. In tal modo permettono un facile utilizzo. Anticamente se ne fabbricavano con spessori anche fino a millimetri, il che li rendeva molto fragili agli urti. In ogni caso bisogna fare attenzione allo shock termico, non toccare la pentola quando il contenuto bolle, perché, anche se la temperatura di cottura è relativamente bassa potrebbe provocare delle scottature alle mani se mantenute per alcuni secondi sul laveggio. 

Oltre ai laveggi, utilizzati per la biocucina, in pietra ollare si producono bistecchiere della salute (piòte in dialetto locale, cioè piastre o pietra da grill) in diverse grandezze, ottime per la cottura di carne, pesce, verdura, frutta. Le bistecchiere vengono bordate con telaio in ferro oppure in rame.

La particolarità di questa pietra è di accumulare velocemente il calore, cucinare direttamente a tavola con il volano termico acquisito. A differenza della ghisa e della piastra in acciaio la bistecchiera in pietra ollare produce poco fumo perchè la cottura avviene a bassa temperatura. La vera pietra ollare della Valchiavenna ha delle proprietà uniche, salutare, cuoce senza grassi, è neutra, esalta il sapore dei cibi, mantiene la carne più morbida, certificata per uso alimentare. 

In Valmalenco la produzione di bistecchiere “La Pioda” avviene a livello semindustriale utilizzando il serpentino locale, questa qualità di pietra è molto apprezzata in edilizia come materiale da rivestimento, pavimentazione e copertura dei tetti, ma meno indicata per le bistecchiere perché soggetta a incrinature.

 Maschere

 Le maschere alpine, nella loro meravigliosa mostruosità , rappresentano un’umanità  senza sesso,  sofferente, urlante, scarmigliata, occhi fuori dalle orbite, bocche sdentate da cui sporge una lingua oscena e libidinosa, nasi adunchi e bitorzoluti, corna in testa, capelli come pellicce di bestie feroci, espressioni diaboliche: streghe e diavoli tanto brutti da diventare perfino belli.

Per non parlare dei draghi, dei serpenti ricavati dalle radici, dei nani, dei giganti, degli spiriti degli alberi, delle sorgenti e delle vette, delle facce ghignanti che deridono i passanti dalle chiavi di volta delle porte, delle figure apotropaiche custodi di case e stalle, dei mostriciattoli propiziatori di fecondità ; delle feste pagane piene di musica, colori e danze, che quindici secoli di cristianesimo non sono riuscite a purificare.
Divinità e riti che esprimono i fantasmi del’inconscio: ancora oggi mettono a disagio chi si sofferma a guardarli. Personaggi scomodi, vagamente disgustosi, raramente notati dai critici d’arte.
L’arte popolare europea non ha nulla da invidiare, in quanto a potenza espressiva e ricchezza di modelli, a quella africana, europea, polinesiana. Anche perché proviene dallo stesso retroterra culturale: una spiritualità  animista basata su una pluralità  immensa di esseri dalle forme più strane, che rispecchiano la vita della natura, e quindi metamorfici, né uomini né bestie né piante, ma insieme plastico dove uno stato si fonde e si confonde con l’altro, in cui la decomposizione delle forme trova largo spazio e terrorizza chi ha paura della morte; una fantasia sfrenata, eccitata spesso dall’uso di psicotropi (la pomata delle streghe), o dalla fame, ottimo agente allucinatorio, che ha fatto immaginare, e rappresentare, entità di cui si è perso il significato, ma di cui è rimasto il fascino; una povertà di mezzi che faceva che, nel momento in cui chiunque impugnava uno strumento per costruire qualcosa, l’ambizione fosse anche quella di renderlo esteticamente gradevole, e tanto resistente da durare nel tempo.
Attraverso quelle figure si può ritrovare l’anima arcaica di una cultura.
Esclusi greci e romani del periodo classico, nel resto del mondo l’arte non è figurativa: è simbolica. Cioè non rappresenta la realtà ; la interpreta, in maniera più o meno comprensibile al grande pubblico.
Pochi, a parte gli specialisti, sono coscienti, in Occidente, del debito culturale che la nostra civiltà deve rimettere ai popoli considerati  l’inciviltà.
Ancora una volta, si tratta dell’eredità dei “selvaggi”, che deve essere riconosciuta e capita.